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Newsletter n.4292 del 13 Ago 2014 16:35
Rubrica: Informativa Generica

Un racconto al giorno: Racconto Autobiografico - Eugenio Scalfari

Il racconto di una vita fuori dal comune, La descrizione di una casa normale, in una cittaŽ normale, di fronte ad un porto normale. Ancora vivi ai nostri giorni pieni di vita e di colori. Inaspettatamente lo scenario ed il palcoscenico in cui si eŽ formato un giornalista ed uno scrittore fuori dal comune. Un personaggio stimato e rispettato piuŽ che amato. Un uomo di cui la storia dovraŽ ricordarsi e la cui storia faraŽ riconciliare ognuno con seŽ stesso.

di Redazione L I S

 

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Non e´ l´autore che ci interessa ma il suo racconto. Troppo noto per essere commentato e descritto ma ancora lontano dai tragitti mentali di molti di noi Lions. La scrittura affascina non perche´ si e´ riconosciuti grandi ma perche´ descrive in maniera efficace tutto cio´  che siamo, che pensiamo, che vogliamo e che temiamo. In questo Eugenio Scalfari si distingue come scrittore capace di raccontare se stesso e, attraverso il suo racconto, descrive come siamo fatti noi e come noi vorremmo viaggiare fra i nostri pensieri.

Per quanti di noi hanno attraversato la seconda guerra o ne vivono il ricordo degli ultimi giorni, la descrizione che segue e´ di fatto il racconto di un viaggio nella propria vita e nelle proprie radici. Questo racconto appare come la sceneggiatura di un film che tutti abbiamo vissuto e che attraverso queste poche righe ripercorriamo con viva memoria. La memoria delle cose perdute per sempre con un po´ di nostalgia ma senza rimpianti. Il racconto di Scalfari qui riportato continua nella vita di tutti noi, non soltanto nella sua. Ognuno potra´ continuare il proprio racconto aggiungendo i suoi giorni uno per uno fino al risveglio in questa nostra attualita´.

Godiamoci questa lettura che e´ soltanto l´incipit di un romanzo autobiografico che troviamo da Einaudi Editori in piubblicazione digitale nella collana "Passaggi Einaudi" al prezzo  di Euro 8,90. lo troviamo all´indirizzo web http://www.einaudi.it/libri/libro/eugenio-scalfari/racconto-autobiografico/978880621642.

Gli incontri, gli affetti, le passioni di una vita all´insegna dell´impegno e della ricerca intellettuale. Il racconto di un´avventura fuori dal comune.

 

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Eugenio Scalfari
 Racconto Autobiografico

Sono nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924 alle ore 10,30, all’ultimo piano di un palazzo costruito nei primi anni dell’Ottocento nella piazza centrale della città.
Alcune finestre della nostra casa affacciavano su quella piazza. Di fronte a noi c’era la chiesa cattedrale intitolata a San Francesco; sulla sinistra la sede del Municipio.
Altre finestre davano su un vicolo laterale al fondo del quale c’era il ristorante La Scaletta (c’è ancora).
Il lato opposto alla piazza si apriva sul porto, sulle banchine dove attraccavano le navi chiamate «postali» perché portavano la posta, i passeggeri e le merci in Sardegna, nei porti di Olbia, Golfo degli Aranci e Cagliari.
Partivano e tornavano ogni giorno. Su altre banchine ormeggiavano navi da carico e petroliere. Sull’ultima attraccava di solito una corvetta o un cacciatorpediniere.
Poi c’era la darsena dove sostavano le navi in riparazione.
Dopo la darsena sorgeva la chiesa di Santa Firmina,patrona di Civitavecchia. Ancora piú in là l’alta sagoma della Rocca medievale. L’altro lato del porto, verso sud,era chiuso da un lungo antemurale rinforzato all’esterno da una barriera di scogli e di massi di cemento fissati sul fondo. Al di là di quell’imponente sbarramento il Forte Michelangelo, costruito dal Sangallo, sede di una guarnigione militare. Al fianco del Forte i silos, dove venivano conservati il grano e altri cereali e il carbone:costituivano il grosso del commercio portuale. I carichi di petrolio erano invece depositati in grandi cisterne.

Proprio sotto le case d’abitazione c’era il fronte del porto, una costruzione di grande interesse storico che risaliva all’epoca romana e che la leggenda attribuiva all’imperatore Traiano. Era in effetti una bellissima architettura, alloggiava fondachi, pescherie, botteghedi  attrezzi e reti da pesca, protetti da una fila di portici dove venivano allestiti i banchi del pesce che le paranze sbarcavano la mattina e il pomeriggio. Spigole, orate, ricci di mare, aragoste, cefali, merluzzi luccicavano su quei banchi; le donne ne illustravano il pregio e richiamavano l’attenzione dei compratori mentre i «postali» trainati dai vaporetti rimorchiatori puntavano la prua verso la bocca del porto a sirene spiegate.

Questo panorama io l’ho avuto sotto gli occhi da quando sono nato fino ai miei sei anni. Lo guardavo ogni mattina dal balcone della nostra sala da pranzo (ma chiamarla sala è decisamente improprio, poiché era una camera con al centro un tavolo per quattro; un tramezzodi legno con vetri colorati la separava da un corridoio sul quale si aprivano le porte della stanza da letto, di un salotto e di un’altra stanza da letto). La porta di casa era in fondo al corridoio. La cucina appena entrati sull’altro lato del corridoio. Non c’era riscaldamento. Nella sala da pranzo una porta conduceva attraverso una scala a chiocciola a una soffitta che chiamavamo piccionaia, una sorta di sottotetto che era il mio regno di bambino.
Il gabinetto era situato in un vano che occupava metà del balcone. Allora accadeva spesso cosí. Dentro quel vano c’erano la tazza del water e di fronte un lavandino e un finestrino.
Ci lavavamo nella stanza da letto. I miei genitori con una catinella di maiolica su un trespolo di ferro, un versatoio colmo d’acqua e un secchio per l’acqua sporca. Per me c’era una piccola vasca dove mia madre mi lavava con una grossa spugna, una manciata di crusca e sapone di Marsiglia.

La casa era molto modesta sebbene i soffitti della stanza da letto e del salotto fossero piacevolmente decorati da affreschi: ceste, corone di fiori assai ben disegnate dal centro delle quali spuntavano volti di putti e di angioletti con piccole ali azzurro-cielo.
In quell’alloggio avevano vissuto i miei nonni materni e i loro cinque figli (mia madre era la seconda, gli altri
erano due femmine e due maschi). Ma allora la famiglia occupava tutto il piano del palazzo. Poi mio nonno, Francesco Scotti, morí nel 1923; mia zia Maria si sposò e andò a vivere in un’altra casa, mia zia Lidia si sposò anch’essa
e si trasferí a Roma dove andarono a vivere anche mia nonna e i suoi due figli maschi.
Nella casa restammo soltanto i miei genitori e io. Lí si è formata la parte istintuale del mio carattere, lí la mia
memoria cominciò ad accumulare sensazioni e ricordi.
Le sere della bella stagione mi affacciavo sul balcone insieme a mia madre. Sul mare aperto si vedevano lelu ci delle lampare, le barche da pesca che stendevano le reti al largo e pescavano a strascico. Suonavano le sirene dei «postali» e dei rimorchiatori, le luci delle cabine brillavano in alto mare.
Mia madre mi indicava le stelle, il Carro dell’Orsa Maggiore, Venere che splendeva accanto alla luna.
Era molto malinconica mia madre. Suo padre era morto nel ’23, pochi mesi dopo il suo matrimonio. Lei di suo padre aveva una sorta di culto che coltivò per tutta la vita. Aveva sposato mio padre sedotta dai suoi modi, dal suo corteggiamento, dalla sua cultura, dalle poesie che le dedicava e anche dal desiderio carnale che aveva per lei. Era un bell’uomo mio padre; mia madre era bellissima. Ma tra loro non ci fu mai un vero amore. Del resto mio padre non ebbe mai quello che si dice un vero
amore; ebbe affetti profondi e duraturi ma non amore.
Gli piacevano molto le donne, perciò era naturalmente infedele. Passava le serate quasi sempre fuori casa, era anche un giocatore accanito e spesso perdente. Molto vitale e molto impetuoso, gioioso e audace. Aveva fatto tre anni di guerra sul fronte dell’Isonzo e del Grappa.
Poi, non ancora smobilitato, nel ’19 aderí all’appello di D’Annunzio e partecipò all’impresa di Fiume. Queste sue avventure sedussero mia madre ma, quanto all’amore, anche lei era poco disponibile perché quel sentimento era interamente occupato dal ricordo di suo padre e non c’era altro spazio. O meglio: un altro grandissimo spazio c’era, e a occuparlo ero io. Fu l’amore per me che tenne uniti i miei genitori finché vissero. E io feci tutto ciò che potevo per tenerli insieme ed evitare una separazione che avrei vissuto come una catastrofe.
Questo triangolo di affetti che ha unito me e i miei genitori è stato decisivo per la mia formazione, anche se ne ebbi coscienza molto piú tardi.
Debbo a questo punto fornire qualche cenno sulle famiglie paterna e materna. Vi domanderete per quale motivo questi ragguagli sugli antenati facciano parte del racconto della mia vita. Risponderò citando un brano di
Proust tratto da La Prisonnière Viene da uno scrittore che fu il piú attento viaggiatore all’interno del proprio io mettendo il suo stile, la sua cultura e il suo modo di sentire al servizio di quel viaggio cosí avventuroso. Ecco la pagina che cade a proposito:
«Quando superiamo una certa età l’anima del bambino che fummo e l’anima dei morti da cui siamo usciti vengono a gettarci a manciate le loro ricchezze e i loro sortilegi, chiedendoci di cooperare ai sentimenti che proviamo e nei quali, cancellando la loro antica effige, la rifondiamo in una creazione originale. A partire da un certo momento dobbiamo ricevere tutti i nostri parenti arrivati da cosí lontano e riuniti attorno a noi».
Non è dunque un’inutile digressione rivisitare i nostri antenati; del resto non siamo noi a deciderlo ma sono loro a rivivere dentro di noi e a «gettarci a manciate le loro ricchezze e i loro sortilegi». Che noi lo si sappia oppure lo si ignori, la loro presenza nella nostra vita esiste comunque, è uno degli elementi che hanno contribuito a formare la persona che siamo stati prima di diventare anche noi uno di quei parenti che arrivano da lontano e si riuniscono attorno ai nipoti dei nostri nipoti nella continuità delle generazioni e delle loro cronologie.


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